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Francesco Roder – Snowflake, un corto tra Sacile e New York

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Francesco Roder Snowflake

Francesco Roder – Foto di Alessandro Venier, grafiche di Federico Manias

Iniziamo con le presentazioni.
Sono Francesco Roder, 29 anni, di Sacile. Sono tornato da poco da a New York, dove ho girato un corto, scritto e diretto da me. Ci ho lavorato per quasi sei anni, ma, finalmente, il suo momento è arrivato.

Com’è nata la tua passione per il cinema?
L’ho sempre avuta. Ricordo un giorno alla superiori, credo fosse uno sciopero o uno degli ultimi giorni di scuola. Da appassionato di horror avevo portato in classe Scream. Lo conoscevo a memoria, però ho guardato i miei compagni, ho visto quanto erano presi dal film e in quel momento mi sono detto che volevo fare anche io una cosa cosi, che volevo anche io che la gente, guardando i miei lavori, provasse quella stessa sensazione.

Raccontaci qualcosa del tuo corto.
Si chiama Snowflake. é una storia d’amore, precisamente la fine della storia d’amore tra due donne, in una lunga notte di ricordi e neve.

Molto sintetico, non vuoi svelarci altro?
No, in questo momento preferisco di no.

Com’è nato questo corto?
Nel 2006 ero a Venezia, al Festival. Avevo conosciuto Ele Keats, un’attrice americana, durante la conferenza stampa di Soderbergh. Ci eravamo lasciati con la promessa che se mai avessi avuto un progetto giusto per lei l’averi ricontattata. Due o tre anni dopo l’ho ritrovata su Facebook e le ho parlato del copione. L’ha letto e ne è rimasta entusiasta, dicendomi che voleva farlo. L’idea iniziale era di girarlo in Italia. Tuttavia, qui non avevo conoscenze sufficienti per realizzare le mie idee come volevo. Ho provato a cercare dei produttori qui in regione, ma la cosa si è rivelata un buco nell’acqua. Nel frattempo ero andato in Messico per fare l’assistente alla regia per un corto di un’amica. Avevo conosciuto un sacco di gente e mi sembrava che si potesse fare li. Ele Keats però non voleva girare in Messico e si era offerta di aiutarmi a spostare la produzione a Los Angeles. Abbiamo iniziato la raccolta dei fondi e a mettere insieme la produzione. Poi tramite un’amica abbiamo fatto l’ultimo cambio di location, spostandoci a New York. Tramite lei avevamo ottimi contatti in città, che si sono dimostrati molto efficienti fin da subito. Inoltre la cosa era perfetta, perché quando scrivevo, avevo proprio in mente New York.

Come mai proprio New York?
Per come avevo scritto il copione, la vicenda poteva essere ambientata in qualsiasi posto. Avevo Ele Keats in mente e immaginavo una città americana. Li ho iniziato ad immaginare la neve, questa grande città ed è stato naturale pensare a New York.

Come hai finanziato il tuo progetto?
La maggior parte dei soldi li metto io. Dopo che i contatti con una produttrice di Trieste erano andati male, ho deciso di realizzare comunque il mio progetto, magari mettendoci di più, però solo con le mie forze. Ho iniziato a risparmiare, a non fare le vacanze, a rinunciare a tutto pur di trovare i soldi. Abbiamo fatto anche una campagna fondi su Internet, su IndieGoGo, e organizzato qualche evento.

Com’è stato lavorare a New York: più o meno difficile di quanto ti aspettassi?
Lavorare a New York non è stato diverso da altre esperienze che ho avuto. Certo, questa è stata la mia prima esperienza totalmente professionale come regista, ma avevo già lavorato in altri set ricoprendo ruoli diversi. La gestione del set non mi è sembrata diversa dalle altre realtà che ho potuto vivere, sia in Italia che all’estero. Poi giravamo con un budget ridotto all’osso (per quanto la realizzazione del progetto mi abbia azzerato il conto in banca!), un’esperienza che nel bene e nel male avevo già conosciuto!

Facciamo un paragone con l’Italia: quali sono le principali differenze che hai trovato nel modo di lavorare italiano e americano? Pensi che, insistendo un po’, saresti riuscito a realizzare il tuo corto in Italia? 
In realtà l’idea iniziale era proprio di girare il corto in Italia. Non l’ho fatto qui perché semplicemente non conoscevo abbastanza persone che potessero collaborare con me con un budget così ridotto. A New York, tramite amici e amiciz di amici, siamo riusciti ad ottenere molte cose scontate o addirittura gratis. Tutto il personale è stato comunque pagato, ma forse in Italia, non avendo molte conoscenze nel settore, avrei speso di più.
Lavorare con una troupe a New York ti fa capire come negli Stati Uniti il cinema sia un’industria molto seria e potente. La gente che ci lavora è molto giovane. La media dell’età della nostra troupe (che era di professionisti), probabilmente non arrivata ai 30 anni. Il mio co-produttore ha 22 anni ed ha fatto un ottimo lavoro nell’organizzare la produzione. Nei progetti a basso budget che ho fatto in Italia non sempre ho trovato la chiarezza di ruoli e la serietà che ho visto sul set di “Snowflake”.

Com’è stato lavorare con attori americani?
La prima differenza a livello burocratico sta nel fatto che gli attori americani con cui ho lavorato facevano parte del sindacato (la SAG) che è molto potente e in certi casi, giustamente rigido. Ad una certa ora, anche se non avevamo finito, dovevamo liberare per forza le attrici perché le regole del sindacato non ci permettevano farle lavorare per più di 10 ore sul set. Questo in Italia non l’ho mai visto, qui tutto è più labile, più flessibile (il che è un bene e un male). Dal punto di vista lavorativo, in realtà non ho trovato molte differenze, se non quelle a livello prettamente personale. Le mie due protagoniste, Ele Keats e Tracy Middendorf, sono due attrici meravigliose e generose, ma lavorano in maniera molto diversa. Ele è molto più istintiva e si affida con maggiore libertà all’idea del regista. Tracy, invece, è più cerebrale, fa molte domande, cerca di capire nel dettaglio ogni singola cosa e ti mette alla prova. Sullo schermo, nonostante i due approcci diversi, entrambe hanno dato il meglio. Nel cast c’era solo un italiano, uno dei miei migliori amici, Lorenzo Balducci. E’ stata la prima volta che lo dirigevo, per quanto fosse una piccola parte. Quando ho rivisto il playback di una scena in cui doveva semplicemente guardare fuori campo, sono rimasto senza fiato da quanto sia riuscito a dire e a fare senza neanche aprire bocca. Spero di riuscire a dirigerlo presto con qualcosa di più sostanzioso.

So che prima della partenza non avevi ancora trovato una delle attrici principali. Com’è stata la ricerca della di una delle protagoniste?
E’ stato un incubo. La mia produttrice aveva fatto un casting a New York mesi prima ma tutte le attrici erano inadatte alla parte, soprattutto per via dell’età. Solo una mi convinceva, ma anche lei era un po’ troppo giovane. Io avevo sempre voluto avere Tracy Middendorf, perché ero suo fan da quando da bambino l’avevo vista in “Nightmare Nuovo Incubo” e in alcune puntate di “Beverly Hills 90210″. Speravo che Ele Keats la conoscesse di persona in modo da mandarle il copione evitando la barriera degli agenti. Ma non la conosceva e così ci ho rinunciato. Ele ha continuato a mandarmi materiali di altre attrici che erano adatte al ruolo ma che continuavano a non convincermi del tutto. Poi, poco prima di partire per New York, ho scoperto che l’agenzia che rappresentava Tracy era proprio a New York. Così ci ho provato. Incredibilmente il suo agente ha dimostrato subito disponibilità ed interesse al progetto. Arrivato a New York, ho scoperto che però Tracy aveva in ballo un altro progetto che si girava in contemporanea col mio corto. Così in attesa di una risposta, abbiamo continuato a prendere in considerazione altri attrici. A due giorni dall’inizio delle riprese, quando io ormai stavo perdendo ogni speranza, Alexes, il mio co-produttore, mi manda un sms e mi scrive “Indovina… Tracy è dei nostri!”. Lo conosciuta di persona il giorno prima di iniziare a girare e ho capito che avevo fatto la scelta giusta.

Quando sarà pronto il tuo corto?
Appena sarò riuscito a saldare i miei debiti! Scherzi a parte, spero di avere una copia definitiva entro l’estate.

Progetti futuri?
Sto scrivendo un soggetto per un film horror su commissione nella speranza che venga accettato. Poi c’è una serie web semi-demenziale a cui sto lavorando con alcuni miei amici qui in Italia. E c’è anche una sceneggiatura per un dramma familiare chiusa nel cassetto che non aspetta altro che essere aperto…

Abbiamo finito, ti chiediamo di consigliarci un film.
Uno solo??? Il primo che mi viene in mente perché l’ho appena visto. “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky. Bellissimo.

Qui potete trovare la pagina facebook del corto.

Qui la pagina su Indiegogo

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